Questo tema mi permette di mostrare il rapporto di reciproco arricchimento che ha collegato la mia passione per il teatro e lo studio delle letterature, in particolare quelle classiche. Il teatro greco e quello latino non hanno solo influenzato i successivi sviluppi letterari, ma hanno fondato l’idea stessa del teatro occidentale. Se è vero che la performance è presente nei suoi ancestrali caratteri rituali fin dalle prime civiltà umane, è però ai Romani e ai Greci che dobbiamo attribuire la codificazione dell’arte teatrale nei suoi elementi testuali, musicali e scenografici, delle soluzioni architettoniche e delle figure teatrali (attore, spettatore, regista).
Secondo la storiografia teatrale, che ho avuto modo di approfondire in due corsi extracurricolari, dai classici si è anche originato un dualismo che ha accompagnato il teatro nei secoli a seguire: teatro per ridere e teatro per educare. Questo dualismo non è però una dicotomia. Nessun autore coincide con uno dei poli –– risata senza riflessione o meditazione senza intrattenimento –– nondimeno questi due criteri sono un buono strumento di analisi per gli autori classici e moderni, ognuno dei quali è stato capace di realizzare un’originale sintesi fra di essi.
Questo tema è evidentemente metanarrativo: non riguarda il contenuto delle opere ma le scelte compiute dall’autore in merito al proprio stile, influenzate dalla temperie culturale del suo tempo. Ho scelto dunque un tema di esempio, “il rapporto con il denaro nelle relazioni umane”, per mostrare le diverse modalità e finalità con cui esso viene trattato da autori diversi. Proprio dal confronto fra i due passi potrà nascere la discussione più ampia sullo scopo del teatro, radicato da sempre nel rapporto fra lusus e paideia.
L’autore che ho scelto per il passo latino è Plauto, il primo drammaturgo romano delle cui opere abbiamo ampia testimonianza. Tito Maccio Plauto (250/255 – 184 a.C.) si distinse per il suo stile scoppiettante; lo scopo delle sue opere è la risata, non la trasmissione di messaggi edificanti; pur di suscitare il riso, Plauto sacrifica a volte la coerenza o verosimiglianza della storia.
Per il passo greco ho selezionato un brano de “Il misantropo” di Menandro (342/341 – 292/291 a.C.). Questo autore ateniese rivolge la sua attenzione a un tema molto caro all’Ellenismo, quello della filantropia, intesa come amore per gli altri uomini in virtù della comune fallibilità e miseria; le sue opere appartengono al periodo della Commedia Nuova e mostrano attenzione alla verosimiglianza; il loro scopo è principalmente educativo e la comicità “grossa” dei periodi precedenti lascia spazio a un sorriso, talvolta velato di malinconia.
Titus Maccius Plautus, Aulularia (La commedia della pentola), vv. 182-198
MEGADORVS Salvos atque fortunatus, Euclio, semper sies.
EVCLIO Di te ament, Megadore.
MEG. Quid tu? recten atque ut vis vales?
EVCL. Non temerarium est, ubi dives blande appellat pauperem.
Iam illic homo aurum scit me habere, eo me salutat blandius.
MEG. Ain tu te valere?
EVCL. Pol ego haud perbene a pecunia.
MEG. Pol si est animus aequos tibi, sat habes qui bene vitam colas.
EVCL. Anus hercle huic indicium fecit de auro, perspicue palam est,
quoi ego iam linguam praecidam atque oculos ecfodiam domi.
MEG. Quid tu solus tecum loquere?
EVCL. Meam pauperiem conqueror.
Virginem habeo grandem, dote cassam atque inlocabilem,
neque eam queo locare cuiquam.
MEG. Tace, bonum habe animum, Euclio.
Dabitur, adiuvabere a me. Dic, si quid opust, impera.
EVCL. Nunc petit, quom pollicetur; inhiat aurum ut devoret.
Altera manu fert lapidem, panem ostentat altera.
Nemini credo qui large blandust dives pauperi:
ubi manum inicit benigne, ibi onerat aliqua zamiam.
Ego istos novi polypos, qui ubi quidquid tetigerunt tenent.
Contestualizzazione
Euclione è un anziano che ha trovato nel giardino di casa una pentola d’oro, sepolta da suo nonno. Il timore di perdere questa nuova ricchezza attanaglia Euclione, fino a condizionarne le azioni e soprattutto le relazioni sociali. Alla fine del primo atto, egli riflette fra sé e sé.
“Già ora, che mi preoccupo di nascondere a tutti ciò che non devono sapere, mi sembra che tutti lo sappiano. Mi salutano con maggior cortesia di prima, mi avvicinano, mi fermano, mi chiedono come sto, cosa faccio, quali affari ho per le mani” (vv. 112-116).
Megadoro è un senex ricco ma senza moglie, presentato all’inizio del secondo atto mentre discorre con la sorella riguardo a un suo futuro matrimonio. A lui non interessa una sposa ricca: è infatti già benestante ed è contento di poter evitare “i gran partiti, con la loro boria” (vv. 166-167). Chiederà dunque la mano della giovane di cui è genuinamente infatuato, la figlia del “povero” Euclione, Fedria.
Nel passo presentato sopra, Euclione incontra Megadoro, che lo saluta calorosamente. I suoi modi cordiali vengono però fraintesi da Euclione, che teme che egli sia al corrente della sua ricchezza nascosta e stia tentando di sottrargliela.
Nei versi successivi, Megadoro chiederà a Euclione la mano di Fedria. Tuttavia, mostrerà di non essere al corrente del rinvenimento del tesoro e prometterà di non richiedere alcuna dote per la ragazza, conoscendo le difficoltà economiche del padre. Euclione acconsentirà dunque al matrimonio.
Analisi
Il metro utilizzato nei versi presentati è il settenario trocaico.
Nel passo è possibile rintracciare le caratteristiche formali dello stile di Plauto. Il linguaggio attiene a quello del sermo familiaris o cotidianus. Tuttavia, la creatività del poeta deforma, carica e accentua il discorso, per renderne più espressivi i tratti: il risultato è dunque uno stile vario e brillante, ben lungi da una piatta e banale conversazione cotidiana. Inoltre, come sottolineato nell’Introduzione, Plauto appartiene agli inizi della letteratura latina; di conseguenza, nelle sue opere troviamo anche diversi arcaismi e grecismi e un forte uso dell’allitterazione (che sin dai primi carmina è la figura retorica di suono più frequente nella poesia latina). Da notare:
- nella morfologia: la terminazione arcaica -os (al posto di -us), “salvos”, “aequos”; la forma arcaica quo- (al posto di cu-), “quoi”, “quom”; la forma rara “sies”, che conserva l’elemento ie dell’ottativo arcaico;
- i grecismi “ecfodiam”, “zamiam”;
- forme tipiche della lingua parlata: le contrazioni “recten” (= rectene), “ain” (= aisne), “opust” (= opus est), “blandust” (= blandus est) ; la forma sincopata “adiuvabere” (= adiuvaberis); le interiezioni, “Pol” (apocope di “Pollux”), “hercle” (forma sincopata di “Hercules”); la forma apocopata “sat”; la ridondanza nell’utilizzo di due avverbi “perspicue palam” (in allitterazione della p);
- strutture sintattiche tipiche della lingua parlata: il nesso conclusivo “eo”, comune in Plauto; il proverbio “Altera manu fert lapidem, panem ostentat altera” (con la ripetizione, a inizio e fine verso di altera, co valore distributivo); le forme correlate “ubi” e “ibi”, che dividono in due parti il penultimo verso;
- allitterazioni: “tu te” (con poliptoto), “perspicue palam”, “qui ubi quidquid”, “tetigerunt tenent”.
Commento
Euclione rappresenta una magistrale raffigurazione del vecchio avaro, ma l’Aulularia non è una commedia come le altre. Essa è spesso considerata il prototipo della “commedia di carattere”, un’opera in cui, pur non mancando gli intrecci convenzionali, l’importanza maggiore è attribuita alla delineazione del tipo psicologico. Se è vero che la comicità scaturisce anche qui, al pari di altre commedie plautine, dall’accentuazione iperbolica di una caratteristica, è da notare che Euclione non costituisce soltanto una caricatura o una macchietta ma la rappresentazione ingrandita e deformata di atteggiamenti presenti in ogni uomo. Appare dunque allo spettatore come un personaggio vivo e reale.
La paranoica gelosia della pentola porta il protagonista a rintracciare una minaccia in ogni domanda o commento di Megadoro. L’utilizzo degli a parte (resi in corsivo nel passo sopra riportato) permette allo spettatore di “entrare” nella mente del personaggio. Frequenti in Plauto, queste riflessioni ad alta voce – al pari dei veri e propri commenti metanarrativi – creano una distorsione nel tempo dell’azione teatrale, sottolineandone il carattere fittizio e ludico; i risultati comici sono evidenti.
Infine, un altro elemento comico interessante delle commedie di Plauto è l’utilizzo dei cosiddetti “nomi parlanti”, ripreso dalla tradizione greca. Il nome dato a ogni personaggio non è casuale, ma evoca e sottolinea la caratteristica più spiccata del personaggio stesso. Questa caratteristica era lampante per lo spettatore dell’epoca, ma può essere resa anche nella versione italiana, con opportune traduzioni. Alcuni degli esempi più significativi:
- all’avaro si dà nome “Euclione”, dal greco εὖ (bene) e κλύω (chiudere), reso in italiano “Chiudibene”: l’avaro tiene il proprio tesoro nascosto, ma nella sua misantropia chiude anche sé stesso al rapporto con gli altri;
- il ricco anziano che è disposto a rinunciare a una dote pur di sposare la ragazza di cui si è invaghito è chiamato “Megadoro”, da μέγας (grande) e δῶρον (dono), reso in italiano con “Generoso”;
- la splendida ragazza di cui Megadoro e Liconide si innamorano è chiamata Fedria, traducibile come “Luminosa”;
- alla saggia sorella di Megadoro, che lo esorta a prender moglie, si dà il nome di “Eunomia”, da εὖ (bene) e νόμος (legge), cioè “Benregolata”;
- i servi sono chiamati “Stafila”, da σταφυλή (grappolo d’uva), “Vinosa”, e “Strobilo”, da στρόβιλος, “Trottola”, l’una forse avvezza al vino, l’altro costretto a correre in ogni direzione per svolgere i compiti del padrone.
Menandro, Δύσκολος (Il misantropo), vv. 797-812
ΣΩΣΤΡΑΤΟΣ Περὶ χρημάτων λαλεῖς, ἀβεβαίου πράγματος.
Εἰ μὲν γὰρ οἶσθα ταῦτα παραμενοῦντά σοι
εἰς πάντα τὸν χρόνον, φύλαττε μηδενὶ
τούτου μεταδιδούς· ὧν δὲ μὴ σὺ κύριος //
εἶ, μηδὲ σαυτοῦ τῆς τύχης δὲ πάντ’ ἔχεις,
μή τι φθονοίης, ὦ πάτερ, τούτων τινί.
Αὕτη γὰρ ἄλλῳ, τυχὸν ἀναξίῳ τινί,
παρελομένη σοῦ πάντα προσθήσει πάλιν.
Διόπερ ἐγώ σέ φημι δεῖν, ὅσον χρόνον //
εἶ κύριος, χρῆσθαι σε γενναίως, πάτερ,
αὐτόν, ἐπικουρεῖν πᾶσιν, εὐπόρους ποεῖν
ὡς ἂν δύνῃ πλείστους διὰ σαυτοῦ. Τοῦτο γὰρ
ἀθάνατόν ἐστι, κἄν ποτε πταίσας τύχῃς,
ἐκεῖθεν ἔσται ταὐτὸ τοῦτό σοι πάλιν.
Πολλῷ δὲ κρεῖττόν ἐστιν ἐμφανὴς φίλος
ἢ πλοῦτος ἀφανής, ὃν σὺ κατορύξας ἔχεις.
Contestualizzazione
Cnemone è un anziano scorbutico che non sopporta la compagnia degli altri uomini e vive perciò in campagna, solo con la figlia e la vecchia serva. Persino la moglie lo ha abbandonato, trasferendosi nella casa del figlio di primo letto, Gorgia. Il dio Pan ha deciso di premiare la pietas religiosa della figlia di Cnemone facendo innamorare di lei Sostrato, un ricco giovane di città. Il ragazzo invia un servo a chiedere al vecchio la mano della figlia, ma questi viene cacciato a malo modo.
Sostrato incontra quindi Gorgia, gli spiega le sue intenzioni e ne ottiene l’aiuto. A quel punto, si presenta un’opportunità provvidenziale. Cnemone precipita in un pozzo nel tentativo di recuperare un’anfora e una zappa; Gorgia e Sostrato accorrono in suo aiuto e lo salvano. Il vecchio, colpito dalla gratuita generosità del loro gesto, pronuncia un monologo che ne testimonia la μετάνοια: il δύσκολος, il misantropo, entra in contatto con la φιλανθροπία, il tema più centrale nel teatro menandreo, e ne è trasformato. Decide subito di adottare come figlio Gorgia, il quale concede a Sostrato la ragazza desiderata; questi, in cambio, gli promette la sorella. Il padre di Sostrato, Callippide, avanza però delle remore, vista la condizione umile del ragazzo. Il discorso sopra riportato è pronunciato da Sostrato al padre per richiamarlo a una considerazione umana – filantropica appunto – del denaro. All’argomentazione del figlio, Callippide non potrà che rispondere concedendo la propria figlia a Gorgia. La storia terminerà dunque con un doppio lieto fine.
Analisi
Il linguaggio menandreo, talvolta definito “grigio”, è al contrario uno degli aspetti più originali della sua opera. Illuminante da questo punto di vista è una lezione tenuta nel 1973 da Dario Del Corno presso l’Istituto di Filologia Latina dell’Università di Pisa, poi pubblicata nella rivista Studi Classici e Orientali con il titolo “Alcuni aspetti del linguaggio di Menandro”. Del Corno sostiene che il “tessuto linguistico di base” delle commedie di Menandro abbia le proprie radici nell’Umgangssprache (gergo comune) del suo tempo, un’attico che già subisce il processo di “koinizzazione”: Menandro subordina talvolta l’esattezza espressiva all’adeguamento al processo linguistico in atto, pur con le sue improprietà –– un esempio per tutti, l’uso quasi esclusivo del congiuntivo in luogo dell’ottativo obliquo. Nel passo scelto, il discorso si sviluppa, in maniera estremamente naturale, pur essendo in versi.
Il suo stile è dunque certamente mirato alla ricostruzione verosimile di discorsi quotidiani, ma è anche caratterizzato da una studiatezza e una varietà che non hanno nulla da invidiare ai successivi raggiungimenti dell’epoca ellenistica, ancora ai suoi inizi al tempo di Menandro. Due sono i criteri più spiccati dello stile di Menandro:
- l’allusività: la ricostruzione psicologica del personaggio (vd. Commento) include l’attribuzione allo stesso di un determinato schema espressivo, a lui proprio, che ne rievoca implicitamente lo sfondo psicologico, culturale, sociale. Intenzionalmente colloquiali e colorite sono le esclamazioni pronunciate nel Primo Atto dal servo Pirria, in fuga da Cnemone; il sermoneggiare sentenzioso di Gorgia, con l’uso persino di arcaismi letterari, ne tradisce l’origine contadina; al contrario, Sostrato, con il suo eloquio rapido, personale e spigliato appare fin da subito come un “dandy” di città. Nel passo qui analizzato è evidente la facilità con cui argomenta la sua tesi e convince il padre a compiere una decisione molto “concreta” (maritare la figlia con un uomo di condizione sociale inferiore) sulla base di un concetto ideale, quello della filantropìa;
- l’economia: le parole sono ponderate, mai inserite solo come riempitivo o lanciate allo spettatore per suscitarne la risata, diversamente da Plauto (vd. Confronto); si potrebbe ben dire che l’uomo menandreo è il più introverso fra gli eroi della letteratura greca: il silenzio ne è la situazione naturale, da cui egli si sottrae soltanto per dire ciò che è necessario. È questa la natura di Cnemone, che, pur essendo il protagonista dell’opera, non domina la scena; ma è anche la stessa di Sostrato, il giovane innamorato ma non reso folle dall’amore: la sua passione non obnubila la sua ragione, né lo rende passivo, ma egli è sempre rappresentato lucido e strategico nella ricerca del suo obiettivo.
Ulteriori caratteristiche notevoli sono analizzate nel Confronto.
Commento
Caratteristica precipua delle commedie di Menandro è l’indagine psicologica dei personaggi. Nello schema fisso di un repertorio ripetitivo e in cui il lieto fine è obbligato, non è solo la realtà ad essere rappresentata realisticamente, ma anche il carattere dei personaggi. Il τρόπος è la vera natura del singolo, e su di esso si basa il comportamento di ognuno, non sulla condizione sociale di appartenenza. Ecco che in Menandro scompaiono i tipi fissi della commedia di mezzo: le etere possono essere altruiste, i servi capaci di iniziative felici, i giovani riflessivi, e i misantropi possono convertirsi. Un esempio evidente sono i giovani Sostrato e Gorgia, che si rivelano nell’opera ben più attenti degli anziani Callippide e Cnemone; non sono solo lucidi e ragionevoli nel pianificare l’espediente del travestimento da contadino, ma anche presenti a sé stessi quando si accorgono che è il momento di passare all’azione. Entrambi sono caratterizzati dal pudore, dal ritegno e dal rispetto delle convenzioni sociali: Sostrato, seppure a fatica e non senza l’aiuto di Gorgia, riesce a reprimere il suo θυμός, cosciente che è meglio affidarsi alla νοῦς in una situazione così ostica; Gorgia si fa da parte appena sente Callippide avanzare dubbi sulla convenienza di un suo matrimonio con la figlia; Sostrato (proprio in questo passo) dà prova di una maturità maggiore rispetto allo stesso padre.
Confronto
Torniamo ora al tema centrale di questa dissertazione: il rapporto fra lusus e paideia nell’arte teatrale.
Lo stile scoppiettante di Plauto è la definizione stessa di teatro per il lusus ed è descritto perfettamente da Alfonso Traina in queste parole:
“Quello di Plauto è il comico dell’istante: della battuta impensata, del termine imprevisto, del personaggio grottesco, della situazione buffa, spesso portata all’estremo. Il modello non è che un pretesto: trama e caratteri, elementi greci e romani, procedimenti metrici e stilistici, tutto alimenta la fiamma incandescente di questa comicità. Che è, come dev’essere il vero comico, dissolvitrice e non costruttrice. Ma proprio in questo sta il suo valore umano. Perché nel riso soprattutto l’umanità acquista coscienza della relatività dei valori in cui crede”.
Plauto non scrive per costruire, non vuole educare né proporre modelli; d’altra parte, il suo pubblico non vuole essere educato. Nell’ottica di contestualizzare ogni autore nel proprio tempo, il lusus e la paideia non si configurano come le libere scelte stilistiche di un uomo, quanto invece come il riflesso del tempo in cui l’autore viveva. Plauto visse in un periodo turbolento, segnato da una serie di conflitti passati alla storia come Guerre Puniche; estremamente sanguinose, queste tre guerre ebbero una portata mai vista prima. Con tutti gli uomini adatti alle armi in guerra, la vita era dura per chi rimaneva a Roma: l’intrattenimento popolare giocava un ruolo fondamentale come opportunità di socializzazione e svago. Allo spettatore dello spettacolo di Plauto fa bene vedere un personaggio peggiore di lui: è quello che avviene con l’avaro dell’Aulularia. Gli spettatori di Plauto sono spesso rappresentati nei suoi prologhi come un pubblico “irregolare”. A volte, le sue “prémieres” si concludevano con dei fiaschi perché il pubblico aveva notizia dell’arrivo dei gladiatori e si trasferiva a guardarne i combattimenti, spopolando il teatro. I tempi di attenzione del pubblico erano brevi ed era necessario tenerlo sveglio con continue battute e rotture dell’illusione scenica; nessuno era disposto a seguire un’opera lunga, con tematiche filosofiche e intellettuali, come quella di Menandro. Questo spiega come mai l’interesse di Plauto sia sulla singola scena più che sull’opera nell’insieme.
Questo potrebbe risultare strano, considerando che molte delle commedie di Plauto sono riprese più o meno direttamente da quelle menandree. La letteratura stava iniziando ad essere praticata giusto in quegli anni e, come molti altri autori latini, Plauto riprende quasi in traduzione molti elementi dei modelli greci. D’altra parte, Menandro era l’unico modello praticabile: il teatro di Aristofane (e della commedia arcaica in generale), benché certamente più simile a quello di Plauto nel komos, la comicità “grassa”, includeva elementi comprensibili solo a un ateniese del V secolo. Si pensi all’onomastikomodein: quale Romano, senza aver mai conosciuto Pericle di persona, avrebbe capito una battuta come “Pericle testa di cipolla”? Il teatro di Menandro, al contrario, con le sue tematiche così universali, tipicamente ellenistiche, è trasportabile in qualunque civiltà. Tuttavia, Plauto deve comunque essere visto come un prodotto originale della cultura romana; riprende infatti da Menandro solamente alcune trame e personaggi convenzionali. Tuttavia, non dà all’opera un taglio edificante né ai personaggi un’introspezione psicologica: senza essere superiore o inferiore all’ateniese, compie scelte diverse in virtù del pubblico che doveva soddisfare.
Al contrario, Menandro poteva contare su un pubblico colto, o per lo meno abituato ai tempi teatrali da una lunga tradizione. Sostanziale è nelle sue commedie il tema della φιλανθροπία. La teoria sull’etica di Aristotele e il lavoro sull’ethos nel Liceo –– che includeva biografie di maestri esemplari –– è arrivato a Menandro tramite i Χαρακτῆρες di Teofrasto. È evidente al tempo di Menandro una direzione verso l’analisi della natura umana. Atene è oramai una delle tante città di un Impero distante, che l’ha privata della sua indipendenza e ne ha reso la popolazione più variegata. Per raggiungere l’ευδαιμονία e una convivenza pacifica è ora necessario un rapporto che non sia più (solo) razionale, familiare o cittadino, ma umano. In età classica il rispetto era infatti accordato a chi o poteva dimostrare di “avere ragione” con argomentazioni logiche, o apparteneva alla propria parentela/demo/città; il discorso rivoluzionario che si ha ora è quello di una stima reciproca basata neanche più sull’amicizia, ma sul riconoscimento della comune appartenenza alla misera condizione umana. La comicità di Menandro, di conseguenza, non punta alla risata, quanto al sorriso. È quella che Orazio enuclea nelle Satire: “Ridentem dicere verum: quid vetat?” (I, 1, 24).
In Menandro, contrariamente a Plauto, prevalgono i lunghi monologhi sui brevi scambi di battute. Queste “tirate” permettono di esprimere concetti etici in maniera simile a quanto avviene in un’opera di filosofia. Il discorso di Cnemone, di poco precedente al passo scelto, è la parte più matura di un percorso di paideia iniziato con la tragedia; anche Euripide, con il suo realismo, contribuisce a far capire come è fatto realmente l’uomo, e cioè che egli non corrisponde al personaggio del mito. Menandro aggiunge il “lieto fine”. In un’epoca di prostrazione, egli mostra come sia possibile riscattarsi anche nelle situazioni più avverse –– quando il bios adespotos, la tuche, sconvolge la vita –– e invita i suoi concittadini a tentare anche quest’ultima strada: gli ateniesi ora non dovranno più affidarsi né alla forza militare, né al dominio economico, ma a ciò che possono costruire insieme, fra loro e con i popoli precedentemente considerati barbari, in nome della comune umanità.
All’interno del teatro latino, la lezione di Menandro non rimarrà tuttavia inascoltata. La sua opera sarà scelta come modello non più solo di repertorio, ma anche di messaggio, da Terenzio, che trasporrà in latino diverse commedie menandree e il concetto della filantropia, in latino humanitas.
Alla luce di questa trattazione, il titolo del tema assume ancor più significato. “Castigat ridendo mores” è la frase scritta sui frontoni di numerosi teatri, fra cui quello di Porto San Giorgio.
Bibliografia
- Pearson Paravia (2015), Giovanna Garbarino, Luminis Orae 1B
- G.B. Palumbo Editore (2014), Mario Pintacuda e Michela Venuto, Grecità 2
- G.B. Palumbo Editore (2014), Mario Pintacuda e Michela Venuto, Grecità 3
- Incontri triestini di filologia classica 2 (2002-2003), Luca Mondin, Contaminare nel lessico intellettuale latino
- Mondadori (1999), T. Maccio Plauto, Aulularia-Miles gloriosus
- Mursia (1995), Luigi Barbero ed Ezio Savino, Leggere i Classici Greci 3
- Mondadori (1989), Menandro (a cura di Guido Paduano), Commedie
- Studi Classici e Orientali (1975), Dario Del Corno, Alcuni aspetti del linguaggio di Menandro
Sitografia
- https://la.wikisource.org/wiki/Aulularia#Scena_nona_2
- https://it.wikipedia.org/wiki/Aulularia
- https://sdpd.elionline.com/public/resources/verbatim/autori/Tito%20Maccio%20Plauto.pdf
- https://www.treccani.it/enciclopedia/menandro/
- https://www.treccani.it/enciclopedia/aulularia/
- https://www.treccani.it/enciclopedia/plauto/
- https://www.britannica.com/biography/Menander-Greek-dramatist
- https://www.britannica.com/biography/Plautus
ABSTRACT
Starting from the Classics, theatrical works have served to main purposes: entertaining and educating. The distinction between the two aims, though far from being a dichotomy, constitutes a valuable tool to understand the work of many classical and modern authors – and to better comprehend the society they lived in. The essay, in response to the title “Castigat ridendo mores: theatre between lusus and paideia”, illustrates the different approaches of two authors of the classical tradition, Plautus and Menander, to a common theme, “the relationship with money in human relations”. The unique characteristics of the playwrights, determined by the different contexts in which they worked, will provide the basis for a more general discussion on the purpose of theatre, always rooted in the connection between lusus, the fun entertainment, and paideia, the education.